I put up this page because online-information
on Theo Angelopoulos´ work is very rare, and the original site where
I found it at the "Scuola Nationale di Cinema" (http://www.snc.it/FormIncoAnge.htm)
was deleted.
If one of the copyright holders wants me not
to publish the text, please contact
me and I´ll delete the interview immediately. Chris.
Il
26 e il 27 gennaio 2000 Thodoros (Theo) Anghelopulos ha incontrato gli
allievi della Scuola Nazionale di Cinema. Il dibattito è stato preceduto
dalle proiezioni di O Thiasos (La recita, 1975), il giorno 26, e di To
Vlemma tou Odyssea (Lo sguardo di Ulisse, 1995), il giorno 27.
Lino Miccichè, Presidente della Scuola Nazionale di Cinema.
Theo
Anghelopulos è stato la grande rivelazione del Festival di Cannes
del 1975. Anche i più distratti, che non conoscevano i suoi due
film precedenti (di cui almeno uno, I giorni del '36, era stato dato alla
Croisette), in quell'occasione non poterono fare a meno di andare a vedere
alla Quinzaine des realisateurs, cioè fuori del programma ufficiale,
un film che alcuni di noi non esitarono a definire un capolavoro, La recita.
Paradossalmente
in quell'opera Theo Anghelopulos era stato aiutato dalla dittatura. In
che senso? La censura, e la conseguente difficoltà di rappresentare
in modo diretto i fatti e gli eventi, lo avevano costretto a inventare
nuove soluzioni espressive. L'impedimento alla libertà d'espressione
era stato usato dall'artista come stimolo per nuove ricerche stilistiche,
che lo avevano condotto a privilegiare il cammino delle metafore al posto
del disvelamento diretto del reale.
In
realtà, La recita è stato concepito mentre la dittatura greca
stava già cadendo e completato a dittatura caduta. Tuttavia, l'estetica
in cui si inscrive questo grande film risente di quel bisogno di dire indirettamente
la verità che caratterizza le prime due opere di Anghelopulos.
Prima
di esordire nella regia, egli è stato a lungo critico cinematografico
e ha studiato a Parigi dove ha visto i film delle nouvelles vagues dell'epoca.
Al proprio ritorno ha realizzato un cortometraggio, Ekpombi (Trasmissione,
1968), che credo sia andato perduto, e un lungometraggio, Ricostruzione
di un delitto (1970). Quest'ultimo film sta al cinema greco come Ossessione
sta al cinema italiano: anche lì abbiamo la scoperta di un delitto,
un adulterio, una passione, il desiderio di ricchezza e la carnalità
in una provincia sperduta della Grecia. Nel secondo lungometraggio, I giorni
del '36, Anghelopulos affronta direttamente il tema della storia, che ricorrerà
in tutto il suo cinema successivo. I giorni del '36 sono quelli fatidici
della dittatura di Metaxas, ma evocano indirettamente quelli della dittatura
dei colonnelli. Attraverso il ricorso alla metafora Theo riesce a far sì
che il suo film, pur essendo boicottato, tartassato e maltrattato, non
venga del tutto proibito.
All'epoca,
nel 1975, mi capitò di scrivere che La recita era un capolavoro
del cinema materialistico. In sostanza confermo ancora oggi quel giudizio,
per il trattamento che Anghelopulos riserva ai materiali visivi, per i
legami che si instaurano fra storia e esistenza, tra il presente e il recupero
delle leggende del passato. Il film si rifà alla tradizione del
teatro classico, rievoca il mito degli Atridi (mito che attraversa tutta
la tragedia greca classica) e propone una visione della storia come territorio
"materiale" di lacrime, sangue, morte, sforzi, vittorie, sconfitte. In
questo senso si riallaccia al materialismo, anche nelle sue radici filosofiche.
La
recita è un'opera desueta nella misura (oltre quattro ore) e nella
rappresentazione del tempo. Chi non è più che attento alla
progressione delle immagini rischia di non cogliere il continuo passaggio
da un'epoca all'altra che si verifica talvolta nella stessa sequenza, talvolta
persino nella stessa inquadratura. Ve n'è una,celeberrima, in cui
vengono rappresentate una manifestazione del '46 e, poco dopo, una manifestazione
del '52, come se la seconda fosse una sorta di ideale controcampo della
prima. La macchina da presa, invece, registra il tutto in piano sequenza.
L'uso di questo procedimento, che torna copiosamente all'interno del film
e nelle successive opere di Anghelopulos, appare fortemente analogo e al
tempo stesso radicalmente diverso da quello sperimentato, ad esempio, da
un autore come Antonioni. Se in Cronaca di un amore il piano sequenza serve
a far sì che i personaggi, i loro tempi morti e i loro tempi d'azione
siano costantemente "registrati" dalla macchina da presa, assunta al ruolo
di terzo occhio, in Anghelopulos il piano sequenza è il luogo in
cui si mescolano l'avventura esistenziale e l'avventura storica.
Domani
verrà proiettato Lo sguardo di Ulisse, che tematicamente costituisce,
a mio parere, una sorta di anti Recita, nel senso che tutto ciò
che nel film del '75 è speranza qui diventa delusione, ciò
che è illusione si muta in memoria e pianto, ciò che è
prospettiva e mutamento del mondo si trasforma in senso di immodificabilità
del mondo. Insomma, una sorta di requiem delle illusioni dell'autore e
di un'intera generazione.
Vorrei
aprire il dibattito di oggi ponendo una prima domanda ad Anghelopulos sul
rapporto generale con la tradizione classica greca nella sua opera e specificamente
ne La recita.
Theo Anghelopulos.
Il
rapporto dei greci con il loro passato è molto stretto. A scuola
ci hanno insegnato che la storia è il nostro passato. Adesso le
cose stanno cambiando, la tradizione classica sta sparendo dall'insegnamento,
ma ai miei tempi eravamo obbligati ad apprenderla quasi maniacalmente,
con il risultato che finivamo per detestarla. Ho riscoperto i classici,
e soprattutto Omero, a Parigi, dopo un periodo di distacco. Il mito degli
Atridi ne La recita mi è servito solo come intrigo di partenza.
Costituiva un plot depositato, già pronto. D'altra parte anche L'opera
da tre soldi di Brecht si fonda su un romanzo preesistente. E i grandi
tragici dell'antichità erano soliti prendere un mito e riscriverlo
a modo loro. Le due Antigone di Sofocle e Euripide sono diverse tra di
loro. Non bisogna necessariamente inventare un intreccio, ma sulla base
di un intrigo già esistente proporre qualcosa di diverso. Non volevo
che lo spettatore fosse sorpreso come in un film di Hitchcock, ma che guardasse
a ciò che stava fuori dell'intrigo, alla lettura del mito che intendevo
dare.
Ne
La recita ho cercato di riportare il mito all'altezza dell'uomo, spostandolo
dalla preistoria alla storia. Non la storia in generale ma la storia attuale,
quella che viviamo, che combacia con il nostro quotidiano.
Per
riportare la storia passata al presente occorreva inventare un linguaggio:
mi è sembrato che il classico flashback non potesse essere utilizzato;
era necessario inventare un flashback che non rappresentasse la memoria
di una persona ma la memoria collettiva. Il piano sequenza in cui coesistono,
senza tagli, due o tre tempi storici permette di riportare il passato al
presente, di farlo diventare presente. Il fatto di non usare lo stacco
accentua questa idea di simultaneità. In una stessa inquadratura,
con una panoramica si toccano due tempi diversi: il 1952 e l'epoca dell'occupazione
tedesca, come se si trattasse di due momenti conseguenti, al di là
della distanza cronologica. C'è molto Brecht, in tutto questo: la
sua distanza, l'ironia, le canzoni usate non come musica da accompagnamento
ma come elementi narrativi. Ne La recita le canzoni sono in diretta, appartengono
al profilmico e al tempo stesso servono a raccontare l'azione, a spostarla,
a farla progredire. Nel film ci sono la storia, il mito e il teatro in
ogni suo aspetto: la rappresentazione, il trucco, gli abiti, le prove.
Tutto è impiegato a fini di un reciproco servizio, e il carattere
materialistico del film mette in evidenza che si tratta appunto di un film,
non della registrazione della vita.
D'altronde
era l'epoca di Brecht, in cui tutto era politica; Godard diceva che non
era sufficiente fare dei film politici ma che occorreva farli politicamente.
Quel periodo non lo si può giudicare che secondo i criteri dell'epoca,
le illusioni, le esaltazioni, la voglia che ci animava di cambiare non
soltanto il cinema, ma il mondo.
Uno
dei grandi elementi di fascino del film è l'uso del tempo. I continui
passaggi temporali non sono immediatamente comprensibili per lo spettatore.
Davanti
ai salti temporali tutti pensano che ci siano riferimenti non immediatamente
leggibili. Quando il film è uscito a Parigi è stato fatto
un grande manifesto con tutti i dati storici utili per la comprensione.
Qualche tempo prima avevo visto La cerimonia di Oshima senza conoscere
la storia giapponese e questo non mi aveva impedito di amare il film, anche
se forse avevo perduto qualche dettaglio, qualche riferimento. Ma non stava
lì l'importanza dell'opera. Secondo me i salti temporali sono necessari
ne La recita per articolare i vari momenti della storia. Se togliamo le
date il film diventa ancora più attuale, più al presente.
Questa è d'altronde la funzione dei tre grandi monologhi davanti
alla macchina da presa recitati dal padre, dalla figlia e da colui che
torna dall'esilio. Per esempio il padre parla, nel '40, della guerra greco-turca
avvenuta nel '22. Il suo discorso fatto direttamente alla macchina da presa
è al presente, ma non importa quale presente, se sia quello di ieri,
dell'altroieri, di oggi o di domani.
In
effetti questi tre monologhi sono rivelatori dell'atteggiamento che Anghelopulos
ha nei confronti della storia e costruiscono effettivamente tre tempi diversi:
il tempo del racconto, il tempo di riferimento del racconto, il tempo della
percezione dello spettatore che è un oggi non meglio identificato,
può essere un oggi del '75 o l'oggi di questa mattina del 2000.
La
recita è forse l'unico film in cui Anghelopulos mette in scena un
personaggio collettivo, il popolo.
Una
volta un critico di "Le Monde" mi ha chiesto, a proposito de I cacciatori,
che è il mio film successivo, come mai non avevo usato primi piani.
Gli ho risposto che nel film c'era un primo piano di un gruppo.
Credo,
tuttavia, che uno degli elementi di grande fascinazione de La recita sia
proprio questa tessitura di storia collettiva su cui vengono ricamati i
destini individuali dei personaggi. Non riesco a capire bene se nel film
c'è il senso della sconfitta di una generazione...
I
giorni del '36 è costruito intorno a un'assenza, perchè il
protagonista è dietro una porta e il film gira attorno a questa
porta come se il suo stesso soggetto fosse là dietro. Siccome non
potevo parlare direttamente, dovevo inventare un modo indiretto di raccontare.
Dietro quella porta sta il vero discorso del film. Quando siamo arrivati
a La recita ho voluto esprimermi più apertamente e perciò
ho chiesto al produttore se voleva assumersene il rischio. Mi ha risposto
di sì, se questo poteva servire a fare uscire il film clandestinamente
fuori dalla Grecia. Il suo nome, però, non avrebbe dovuto figurare.
La
sceneggiatura de La recita non è mai stata scritta nè data
agli attori e ai tecnici. C'era solo un manoscritto che io stesso conservavo;
gli attori e i tecnici imparavano quello che dovevano fare la sera prima.
Il
film è stato fatto durante la dittatura, apertamente, con un'audacia
inspiegabile, come se avessimo voluto gridare tappandoci la bocca. Abbiamo
usato tutto il catalogo brechtiano, tutti e cinque i suoi modi per dire
la verità. La malizia, ad esempio. Quando giravamo in interni alcuni
dei nostri facevano la guardia, pronti a imbrogliare le carte se la polizia
si fosse avvicinata. Una volta, ad esempio, dovevamo riprendere una lunga
scena di ballo, in un albergo vicino ad Atene. L'albergatore, quando ci
sentì provare le canzoni, ebbe paura e chiamò la polizia.
Un colonnello mi chiese di assistere ad una prova. Siccome conoscevamo
tutte le canzoni fasciste che esistevano, abbiamo cantato esclusivamente
quelle. Dopo uno, due, tre, quattro pezzi, i poliziotti se ne sono andati
soddisfatti.
Avevo
già fatto il mio primo film in questa atmosfera, durante il periodo
iniziale dei colonnelli. Ogni giorno venivamo a sapere notizie di arresti
di amici, di cineasti. Un'atmosfera triste, come se la pioggia cadesse
sul paese.
La
recita, proiettato a Salonicco, è stato considerato l'atto di nascita
del nuovo cinema greco. Una proiezione ha avuto luogo all'università
di Patrasso: la sala era piena, i membri del comitato che aveva organizzato
la serata si sono presentati dichiarando il numero di mesi di prigione
cui erano stati condannati. Quando la proiezione è terminata, sono
salito sul palcoscenico per rispondere alle domande. Dal fondo della sala,
piena di polizia in abiti civili, si è alzata una ragazza e mi ha
chiesto: "In quella scena lei voleva dire quello che abbiamo capito?".
Ho risposto: "Sì". Applausi. Seconda domanda: "Nell'altra scena
lei voleva dire...?". "Sì". Applausi. Insomma, nessuna domanda chiara,
nessuna domanda che volesse dire qualcosa: un modo indiretto per dire la
verità.
Come
dice Taillerand, "chi non ha vissuto gli anni prima della rivoluzione non
conosce la gioia di vivere". Era un periodo straordinario. Anch'io ricordo
la prima proiezione a Cannes, con Miccichè e gli altri, i compagni
di lavoro, Oshima, Herzog. é stato un evento indimenticabile, pieno
di un entusiasmo che raramente ho trovato in seguito nei festival del mondo
intero. Quando Wajda ha visto il film, ha detto che possedeva un segreto.
Ma questo segreto non stava nel suo linguaggio, bensì nel modo stesso
in cui il film era nato. Come se i nostri sentimenti di allora avessero
costituito un quarto livello dell'opera, invisibile ma forse più
importante degli altri.
Tra
l'altro, per uno di quei miracoli che accadono raramente nella storia,
anche in quella del cinema, man mano che il film si diffondeva il Politecnico
vinceva la propria battaglia e cadeva la dittatura dei colonnelli. Così
La recita, nato sotto la dittatura, veniva proiettato a Cannes qualche
giorno dopo la sua caduta.
Solamente
una metà del film è stata girata, in realtà, sotto
la dittatura. Si è partiti con il governo che precede il regime
dei colonnelli e si è arrivati al dopo colonnelli, a Karamanlis
che ha rappresentato la restaurazione della destra.
Nel
film ha un ruolo fondante la ripresa di quelle rappresentazioni popolari
anonime che in greco si chiamano fustanellas. Potrebbe spiegare cosa sono
in realtà le fustanellas e perchè ha riproposto questa tradizione
popolare, spesso legata alla rielaborazione di motivi classici? C'è
ad esempio ne La recita una famosa fustanella, Golfo la pastora.
Era
la rappresentazione più popolare nei villaggi, quella che tutti
conoscevano a memoria. Compagnie di giro la mettevano in scena in tutto
il Paese. In una certa misura mi serviva per ottenere un contrappunto tra
una Grecia e un'altra, tra due epoche.
Ne
La recita ci sono un elemento teatrale classico, il mito degli Atridi,
una rappresentazione popolare (Golfo la pastora), la storia greca dal '22
al '52, in parte rievocata, in parte rappresentata attraverso le vicende
di vari protagonisti "tipici": il partigiano, il traditore, il fascista.
Uno degli aspetti più affascinanti del film è la continua
intersezione di questi elementi, la loro sapiente mescolanza in base alla
quale la fustanella può trasformarsi in tragedia, la tragedia diventare
storia e la storia prendere le forme di una rappresentazione cantata.
Il
tragico nasce dallo scontro della tradizione popolare con la storia. D'altra
parte, Golfo la pastora è una rappresentazione che nel film non
si conclude mai, viene interrotta dalla storia. Cioè la storia non
resta fuori della scena ma entra direttamente in gioco.
La
recita è nato in modo molto naturale, come se tutti gli elementi
venissero verso di me e non io verso di loro. Al regista si fa sempre la
stessa domanda: come è nata l'idea del film? Fellini rispondeva:
"Mah, non so". Antonioni una volta ha detto che l'idea de Il grido gli
è venuta guardando un muro bianco. Forse è vero, forse è
falso. Ritengo che l'idea di un film sia un lungo processo, composto da
una serie di cose tenute chiuse in una stanza segreta. Inconsapevolmente,
talora, si leggono, si vedono e si vivono eventi che vengono estratti dalla
quotidianità, dal loro contesto, ed entrano in una zona oscura,
una sorta di subconscio artistico. Poi, vi è un momento in cui si
è alla ricerca di qualcosa, momento che io chiamo di umidità
(e che rappresenta un periodo di attesa), nel quale si apre anche quella
zona oscura e da essa escono liberamente i materiali che trasformano l'idea
e, anzi, diventano l'idea del film. Perciò, quando Antonioni dice
che l'idea de Il grido gli è venuta guardando un muro bianco, afferma
il vero e il falso insieme. Dietro c'è un lungo processo. Ne Il
passo sospeso della cicogna, ad esempio, rappresento un matrimonio che
si svolge al di qua e al di là di un fiume: lo sposo sta su una
riva, la sposa sull'altra. Nel '58 avevo letto su un giornale che a Creta
c'era un'isola abitata da pastori la quale rimaneva totalmente isolata
durante l'inverno a causa della corrente molto forte. Siccome nell'isola
non c'era un sacerdote, quando qualcuno moriva i pastori accendevano un
fuoco e innalzavano una bandiera in segno di lutto. Dall'altra riva arrivava
il prete, saliva sulle rocce e celebrava la messa verso il mare e verso
il vento. Nessuno poteva sentirlo. All'interno dell'isola si faceva il
funerale del pastore morto. Dunque, ho letto di questa storia nel '58,
e me ne sono ricordato nel '90. Potete immaginare quanto tempo è
stata addormentata dentro di me.
C'è qualcosa che avrebbe voluto mettere ne La recita e non ha messo a causa della censura?
Siamo
partiti dagli eventi del Politecnico, che rappresentavano un momento di
rottura, il segno di una crisi nel regime dei colonnelli. In realtà,
non ho pensato alla dittatura facendo il film. Ho soltanto temuto che La
recita avrebbe potuto essere preso e distrutto.
Ho
avuto invece dei problemi con il film successivo, I cacciatori, girato
dopo la caduta dei colonnelli, durante il governo di restaurazione della
destra. Volevo proporlo al festival di Cannes ma la commissione ministeriale
temporeggiava; invece di negarmi l'autorizzazione, rimandava la decisione.
Avevo una scadenza molto precisa, ma non potevo far uscire il film senza
permesso. Con mia moglie e l'assistente, perciò, ci siamo divisi
le bobine del film, le abbiamo messe nelle nostre valige e siamo andati
a Parigi. Era il primo anno di Gilles Jacob alla direzione del festival
di Cannes. Sono stati venduti mezzo milione di biglietti per questo mio
film che durava quattro ore. é stato un evento importante. Per la
prima volta si parlava della guerra civile, di eventi accaduti nel nostro
paese, senza mascherarli, senza infingimenti e si diceva come erano andate
veramente le cose. In quei giorni tutta la sinistra, ma non soltanto, vedeva
rappresentate per la prima volta sullo schermo vicende che aveva vissuto.
In una trasmissione radiofonica dopo la proiezione del film, a Milano,
mi sono accorto che molti spettatori non sapevano che in Grecia c'era stata
la guerra civile.
Si sente vicino a un film come Z, l'orgia del potere di Costa Gavras?
Le posso rispondere con l'aforisma di Godard che abbiamo citato prima: Costa Gavras fa dei film politici ma non li fa politicamente. In lui la politica è più spinta sentimentale che comprensione razionale.
Secondo
me La recita riesce a rappresentare perfettamente il gioco brechtiano tra
realtà e finzione, tra attore e personaggio, in particolare attraverso
i piani sequenza e gli sguardi in macchina. In Godard, al contrario, la
volontà di rivelare l'artificio della finzione diventa quasi ossessiva,
fino a coincidere con il contenuto stesso del film. Godard a mio parere
prende Brecht alla lettera.
Brecht,
in realtà, viene spesso mal letto dagli stessi brechtiani. Quando
fa Madre coraggio, ad esempio, egli non esclude il piacere dello spettatore.
Straniamento non significa per Brecht distruggere l'opera. Godard, estremizzando,
ha finito per distruggere, talvolta, i propri film. Così facendo,
però, ha giocato un ruolo importante nella storia del cinema perchè
ha operato forti rotture, ha proposto cose che altri poi hanno saputo sfruttare
meglio di lui. Godard è un dato paradossale del cinema, ma si tratta
di un paradosso produttivo.
Ho ritrovato temi, scene e atmosfere de La recita in Underground di Emir Kusturica. Cosa ne pensa?
Credo che Kusturica proceda in maniera molto diversa, costruendo una sorta di baccanale, mentre a me interessa la storia. Underground mette in scena un periodo storico, ma non per riflettere sulla storia.
Qual è il suo metodo di lavoro con gli attori, la sua idea di recitazione?
Nel
mio cinema, come d'altronde anche nel teatro di Brecht, è il modo
di rappresentazione stesso che produce lo straniamento. In Arlecchino servitore
di due padroni di Goldoni, che ho visto a Parigi, la regia di Strehler
consisteva nel mostrare al tempo stesso la rappresentazione e la sua fabbricazione.
La messa in scena elegante di questa commedia non creava una distanza,
ma dava una profondità, instaurava un secondo livello. Ecco, Brecht
lavorava in tutt'altro modo.
D'altra
parte non bisogna dimenticare che il cosiddetto straniamento viene dai
tempi antichi, quando gli attori portavano le maschere e non mostravano
l'espressione del viso. Nel teatro No, ad esempio, i ruoli maschili e femminili
erano invertiti, gli uomini recitavano nel ruolo delle donne e viceversa.
Brecht ha studiato a lungo il teatro orientale e ne è stato profondamente
influenzato.
Per
tornare al mio rapporto con l'attore, ho fatto Il volo con Marcello Mastroianni,
che solitamente, come tutti gli attori italiani, era un interprete molto
espressivo, caratterizzato da una forte gesticolazione. Qui non usa affatto
le mani, è quasi dorico. Ma non gli ho imposto io questo modo di
recitazione, è la sua intelligenza che gliel'ha suggerito.
Con
Gian Maria Volontè ho lavorato in un periodo in cui era totalmente
disperato, voleva morire. Eravamo a Mostar in zona di guerra e doveva girare
assieme a Keitel: Keitel recitava, Volontè, in realtà, si
limitava a vivere la propria disperazione a un punto tale che Keitel aveva
paura, sentiva che c'era in lui una verità che andava al di là
dell'attore. Sulla piazza di Mostar c'era una foto di Koudelka, Keitel
guardava a sinistra e Volontè a destra.
Alcuni critici hanno scritto che nel suo cinema i piani sequenza derivano anche da difficoltà economiche. Vorrei sapere qual è il suo punto di vista a questo riguardo?
Il
piano sequenza rappresenta per me il rifiuto del montaggio ideologico.
Credo che spesso il cambio di inquadratura venga effettuato solo per non
fare annoiare lo spettatore, anche se non è questo, chiaramente,
il caso di Ejzensùtejn. Ma in tal modo si crea una sorta di selezione
inconscia dei mezzi di espressione. Non a caso Orson Welles usa i piani
sequenza, e Murnau in Der Letze Mann ha concepito un piano sequenza che
comincia in esterni e si conclude in interni. Anche Dreyer faceva piani
sequenza, sebbene in un altro modo.
Una
volta a New York, durante una retrospettiva al Museo d'Arte Moderna, ho
incontrato un professore dell'Oklahoma University che aveva scoperto un
testo di Ejzensùtejn pubblicato poco prima della sua morte ed era
venuto apposta, viaggiando tutta la notte, per portarmelo. In questo scritto
Ejzensùtejn diceva che se avesse filmato l'Acropoli non poteva immaginare
un altro modo di filmarla che il piano sequenza. D'altra parte non bisogna
dimenticare che Ivan il terribile manifesta una tensione verso il piano
sequenza e che il regista non ha avuto il tempo di finirlo.
Fa molte prove prima di girare?
Sì, molte. Ma un piano sequenza lo so mettere in scena assai rapidamente, mentre i pochi primissimi piani che ci sono nei miei film mi costano ore e ore di riprese.
Ne La recita c'è una scena che mi ha fatto pensare molto, non so se a proposito, al cinema italiano, in particolare a Rossellini, Bertolucci, Pasolini. Si tratta del momento in cui i fascisti ballano tra di loro, uomini con uomini. Qual è l'idea che sta dietro questa scena?
Non riesco a vedere i riferimenti al cinema italiano di cui mi parla. Quel tango tra i fascisti è stato improvvisato durante le prove, non c'era nella sceneggiatura. Ho visto due di questi uomini che, per gioco, hanno cominciato a ballare tra di loro, mentre l'orchestra provava, e così ho avuto l'idea di metterli nel film. Non ci sono metafore o intenti particolari dietro la creazione di questa scena, anche se, a posteriori, la rappresentazione finisce per assumere necessariamente una dimensione ideologica.
Parlando dello straniamento lei ha detto che esso non si realizza tanto attraverso la recitazione degli attori quanto attraverso la regia, in particolare con il ricorso al piano sequenza. A fronte di questo, lei ha espresso un concetto di catarsi che richiama evidentemente quello aristotelico...
Quando parlo di straniamento, intendo una rappresentazione che mostri più piani, compreso il proprio rovescio. C'è un momento, ne La recita, in cui gli inglesi recitano la pièce sulla spiaggia, poi cambiano gli abiti e ballano tra loro, mentre si sente A Long Way to Tiparevi e, in mezzo alla canzone, un colpo di fucile. Insomma, la storia è presente ma in un ordine rovesciato. In una stessa scena, voglio dire, la stessa situazione può determinare una molteplicità di effetti, di echi.
A proposito dell'incontro tra mito e storia contemporanea, che caratterizza il suo cinema, volevo chiederle cosa pensa dell'idea che Pasolini aveva di girare un'"Orestiade africana" poi non realizzata se non in forma di "appunti per un film da farsi"?
Sarei stato scettico se si fosse trattato di un qualsiasi altro regista, ma, trattandosi di Pasolini, credo che con la sua cultura egli avrebbe potuto far fronte a tutto, trovando sempre la giusta direzione. Medea lo prova.
Qual è il suo rapporto con un'idea di cinema politico come quello degli Straub, che lavorano anch'essi nella direzione brechtiana e hanno tanti punti di contatto con lei nell'uso del piano sequenza?
Amo e rispetto molto gli Straub, trovo che facciano uno dei rari esempi di cinema retto da una coerenza estrema, oserei dire da una estrema devozione. Non sono credente ma mi piacciono le messe in chiesa.
Prima ha accennato ad Ejzenstejn. Mi piacerebbe che tornasse sull'argomento, sulle sue idee di montaggio e di piano sequenza.
Un piano sequenza molto spesso implica differenti figure di stile (totale, primo piano, ecc.), è come una fisarmonica, capace di orchestrare una successione di diversi piani. Non essendoci tagli temporali, il piano sequenza conferisce una sorta di respiro all'immagine, permette quella che in musica si chiama la pausa. Che differenza ci sarebbe se ci fosse il montaggio? Il primo piano isolato di un volto implica una sottolineatura espressiva, ma se esso fa parte di un piano sequenza, se è inserito senza soluzione di continuità tra un prima e un dopo, allora l'effetto sottolineatura non si crea e il personaggio risulta immerso in una dialettica d'insieme molto più coerente e musicale.
Ha mai fantasticato di fare un film con un solo piano sequenza?
L'ha fatto Hitchcock con The Rope.
Ma lì ci sono tagli, in realtà.
Hitchcock misurava la lunghezza delle inquadrature da girare, era un tecnico straordinario, e cambiava la bobina quando trovava un punto inavvertibile per il passaggio alla bobina successiva, per esempio una zona lievemente oscura, una schiena o un muro. Alla fine è riuscito a realizzare un film di un'ora e mezzo che sembra apparentemente composto di un solo piano.
Apparentemente, infatti.
Prego Dio tutte le mattine affinchè mi conceda una bobina da 3.000 metri, ma purtroppo fino ad ora non mi ha fatto la grazia.
Lei ha detto prima che il montaggio crea una sottolineatura. Ma anche il piano sequenza può assolvere allo stesso scopo. Non le pare che la durata estrema delle inquadrature rappresenti anch'essa una sottolineatura?
La
scelta del piano sequenza dipende sempre da quello che uno vuole dire.
Più volte ho tentato di fare dei tagli, di frammentare questa unità
linguistica. In quei momenti l'operatore si dimostrava assai contento,
perchè il piano sequenza comporta uno sforzo molto duro da parte
sua. Gli attori, invece, lo prediligono perchè così non sono
costretti a interrompere la recitazione. Alla fine però, tutti i
miei tentativi di usare il montaggio non hanno avuto esito, sono sempre
tornato al piano sequenza perchè questa è la mia natura,
questo è il mio modo di scrivere. Mi accade proprio come nella storiella
dello scorpione, non posso tradire la mia natura.
Faulkner
scrive in un certo modo, con lunghe parentesi, Hemingway compone piccole
frasi quasi giornalistiche. Ci sono tanti e diversi modi di scrivere e
tutti possono essere validi. Pensate alla scrittura dei registi di Dogma
(anche se questa parola non mi piace): è una scelta, alla stregua
di tante altre, che vale se il risultato raggiunto è positivo, non
vale se gli esiti sono negativi.
27 gennaio
Ha incontrato difficoltà nel dirigere Harvey Keitel ne Lo sguardo di Ulisse, dal momento che questo attore è abituato ad un sistema produttivo e a un tipo di cinema tanto diversi dal suo?
All'inizio
non è stato facile. Keitel viene infatti da una scuola come l'Actor's
studio, con una preparazione assai diversa rispetto agli altri attori del
film quali, ad esempio, Erland Josephson e Ma a Morgenstern. é arrivato
sul set con cinque persone, un segretario, un maestro di ginnastica, un
assistente per i dialoghi, lo psicologo e la sua segretaria personale.
Per qualsiasi cosa bisognava trattare con queste persone. Una volta mi
sono molto innervosito, quando nel porto di Costanza, in Romania, ha posto
un problema di questo tipo: "Il protagonista viaggia, ma con che cosa paga?
Ha una carta di credito?". Sono diventato pazzo, gli ho detto che ci separavano
secoli di civiltà. Lui non ha risposto, si è limitato a riformulare
la domanda. Così, sono stato obbligato a dirgli che il protagonista
non paga. é rimasto stupefatto. E io ho capito che, anche se nel
film non si vede mai il protagonista pagare, Keitel aveva comunque bisogno
di certe informazioni per costruire il proprio personaggio.
Un'altra
volta si doveva girare il finale e Keitel aveva paura, cercava di rimandare.
Si trattava dell'ultima immagine del film: un monologo di fronte alla macchina
da presa. Il nostro set era una cineteca distrutta. Avevamo finito di girare
tutto, ci restava soltanto la fine del film. Così gli ho detto:
"Non possiamo più aspettare, domani si gira". Il giorno dopo egli
era molto inquieto. Arriviamo sul set, i tecnici dispongono le luci e la
gru, tutto è pronto. Facciamo una prova meccanica: da dove il personaggio
deve partire, dove si ferma, dove arriva, dove si siede. Keitel mi dice
che vuole provare sul serio, ma ha bisogno di qualcosa, di una lunga preparazione...
Che cosa vuole? Un disco di Frank Sinatra, una canzone particolare. Eravamo
fuori Atene e bisognava trovare questo vecchio disco. Con una automobile
sono andati a cercarlo. Nel frattempo la troupe ha cominciato a innervosirsi.
Finalmente hanno portato una cassetta. Keitel si è ritirato dietro
le scene e l'ha messa; quando è finita, ha cominciato a piangere
e gridare "mamma!". Non sapeva che rapporto ci fosse tra il disco e la
madre, ma urlava come un animale ferito. Quando si è presentato
davanti a noi per dirci che era pronto, il suo volto era rigato di lacrime.
Facciamo il primo ciak. Aveva pianto talmente che si era come svuotato,
non riusciva a tirar fuori più alcuna emozione. Così riproviamo
ancora, ma anche questa volta non funziona. Allora io ho detto al direttore
di produzione di far sgombrare il set. "Via tutti!". La segretaria di Harvey
mi ha chiesto: "Deve andarsene anche Keitel?". "Tutti!". Con un gesto di
stizza Harvey è uscito e io ho messo una cassetta con la musica
del film a tutto volume. Appena è finita, ho fatto rientrare tutti
sul set. Harvey, venendo verso di me, mi ha guardato come se volesse uccidermi
e mi ha detto: "Vaffanculo, credi di essere Dio!". Non ho replicato, mentre
continuava a insultarmi. L'ho fatto sfogare. Quando mi è parso che
avesse finito, gli ho chiesto se era pronto. é impallidito, ma ha
detto di sì e ha girato la scena che si vede nel film. Più
tardi ho raccontato, ridendo, tutta la storia a Josephson. Mentre parlavo
vedevo che il suo volto cambiava d'improvviso perchè dietro di me
era apparso Harvey e si era messo ad ascoltare. Ho pensato che sarebbe
di nuovo esploso, ma invece è scoppiato a ridere e mi ha detto:
"Sei un grande!".
Con
Josephson, che è un attore di Bergman e ha un altro metodo, le cose
sono andate diversamente. Una volta doveva girare con Keitel una scena
in cui entrambi correvano con un secchio d'acqua su un ponte e arrivavano
alla cineteca ansimando. Harvey ha chiesto un po' di tempo e si è
allontanato correndo. "Ma dove va?", mi ha chiesto Josephson. Gli ho risposto:
"Va a correre per farsi venire il fiatone". Josephson non ha replicato.
La sua preparazione per girare la scena è stata di fare due o tre
salti. Su tutto questo poi ha scritto un libro dove dice di stimare molto
il metodo di Harvey, ma di preferire il proprio.
Con
Mastroianni, le cose erano ancora diverse. Mi diceva: "Sono un bambino,
raccontami una storia, fammi viaggiare e io entro dentro il film". Non
gli piaceva il metodo dell'Actor's studio. Fino a un quarto d'ora prima
di girare parlava con l'operatore, diceva battute, raccontava aneddoti.
Ma dopo si chiudeva nella sua roulotte, come dentro una conchiglia, e quando
usciva era perfetto già al primo ciak. Con questo voglio dire che
ci sono molte scuole ma che, a prescindere dalla formazione dell'attore,
ciò che conta alla fine è il risultato ed esso non deriva
tanto dalla scuola che si è fatta quanto dalla personalità
dell'attore. Anche nelle scuole di regia le cose funzionano così.
La personalità del regista conta più degli studi che si stanno
facendo. Tra i miei compagni di corso, ad esempio, solo la norvegese Anja
Brejen è riuscita a distinguersi.
Vorrei fare due domande: la prima riguarda ancora La recita. Come è nata l'idea del sogno regressivo che la madre racconta al figlio? La seconda è su Lo sguardo di Ulisse. Se dovesse rigirarlo, cambierebbe qualcosa?
Per
quanto concerne il sogno de La recita, si tratta di una storia che mi ha
raccontato mia madre e che avevo dimenticato. Nel quartiere dove abitavo
da piccolo, c'era un violinista, un personaggio strano, poetico.
Credo
che il rapporto tra madre e figlio sia sempre un rapporto edipico, come
diceva Freud, che oggi è fortemente contestato.
Che
dire a proposito della seconda domanda? Forse modificherei qualcosa ne
Lo sguardo di Ulisse, anche se non so di preciso cosa. Tutte le volte che
rivedo i miei vecchi film mi viene sempre voglia di fare cambiamenti e
in alcuni casi li ho anche fatti. Quando si gira non si riesce a realizzare
che una parte delle nostre intenzioni, il 30%, come diceva Truffaut, il
quale riteneva anche che l'autore fosse sempre più intelligente
dei suoi film. Penso che ognuno di noi pensi di poter far meglio, di riuscire,
cioè, a realizzare una percentuale un po' più alta delle
proprie intenzioni.
Lo sguardo di Ulisse ha un colore prevalente, il blu. La recita, invece, è un film a dominante rossa. Che senso attribuisce a queste scelte cromatiche?
Non
sono mie scelte, purtroppo. Talvolta la dominante di colore non dipende
dalle intenzioni del regista ma dai laboratori di stampa, che egli non
riesce a controllare. Probabilmente la dominante blu proviene dai laboratori
di Cinecittà. Per quanto riguarda la dominante rossa, La recita
ha assunto questa caratteristica col passare del tempo, come accade a tutte
le vecchie pellicole a colori. Quando si fanno delle copie in serie si
hanno spesso risultati lontanissimi da quelli voluti dal regista. In Francia,
ad esempio, mi è capitato di avere copie a dominante verde. Per
il mio ultimo film, L'eternità e un giorno, ho seguito personalmente
l'equilibratura a Cinecittà, eppure le copie che sono state fatte
successivamente presentano delle differenze rispetto alle mie intenzioni
originarie.
Ne
Lo sguardo di Ulisse, comunque, molti elementi della scenografia esaltano
il colore blu: la ringhiera, il retro dei camion, per non parlare del mare.
Siccome il blu è un colore che appartiene anche ai luoghi in cui
il film è stato girato, mi chiedo se il suo uso non sia stato automatico
e in qualche modo inconscio.
Il
blu non è la dominante del film ma, appunto, un colore che esiste
nella realtà fisica dei luoghi in cui si sono svolte le riprese.
é chiaro che talvolta finisce per costituire anche un elemento connotativo,
intenzionale. La barca, ad esempio, è stata dipinta volutamente
di blu per creare una dimensione onirica.
Ci
sono, in alcuni dei miei film, uomini vestiti di giallo, con impermeabili
gialli. Nel finale de Il passo sospeso della cicogna i giovani sono vestiti
di questo colore. Lo stesso avviene in L'eternità e un giorno. Si
tratta di una scelta pittorica, che attraversa tutti i miei film. La prima
volta che ho usato il giallo è stato in Viaggio a Citera. Pioveva,
l'ambiente era grigio, tra le comparse che l'assistente mi ha trovato ce
n'era qualcuna con la bicicletta e l'impermeabile gialli. Mi sono accorto
in quel momento che il giallo sul grigio stava bene e da allora l'ho usato
tante volte, con fini diversi. Per esempio ne Il paesaggio nella nebbia
gli uomini in giallo rappresentano gli angeli, visto che il film è
un racconto di fate e ci sono versi di Rilke (la prima delle elegie duinesi)
recitati dal protagonista, che cominciano con queste parole: "Se avessi
gridato chi mi avrebbe sentito dell'armata degli angeli?".
Ne
Lo sguardo di Ulisse una battuta suona pressappoco così: "Dio per
prima cosa ha inventato il viaggio". Mi pare che questo tema del viaggio
sia ricorrente nel suo cinema.
Non
direi. I cacciatori è centrato sul tema dell'assedio, così
come I giorni del '36. Per me il viaggio è soprattutto il processo
di attesa, che caratterizza la messa a punto del film, quello che ieri
ho chiamato stato di umidità.
Vorrei fare un raffronto tra La recita e Lo sguardo di Ulisse. In entrambi c'è lo straniamento della memoria, attraverso il gioco scenico sul passaggio di tempo. Ma nel primo si tratta di una memoria collettiva, nel secondo di una memoria individuale, come se lei avesse rinunciato a prendere posizione sulla guerra in Iugoslavia, mentre l'aveva presa sulla guerra civile greca. Perchè ha sentito il bisogno di dire la verità nel '75 e non nel '94?
Perchè sono più pessimista di allora. Questo secolo è cominciato con l'episodio di Sarajevo che ha dato origine alla prima guerra mondiale e con Sarajevo si chiude. Non abbiamo imparato niente dalla storia. Siamo degli sconfitti. E la sconfitta è tanto più grave per gli europei perchè essi, per risolvere i loro problemi, hanno chiamato il grande fratello orwelliano, cioè l'America. Il viaggio di Clinton in Italia, Grecia, Germania sembra il viaggio di un imperatore romano che visita le proprie province. Al tempo de La recita speravo in un cambiamento che oggi mi appare sempre più lontano.
Sia ne La recita che ne Lo sguardo di Ulisse torna il tema del teatro. In quest'ultimo ricorre a Shakespeare...
E' la prima volta che utilizzo Shakespeare. Ho pensato che il suo Romeo e Gulietta rappresentasse uno straordinario elemento di contrasto nella città assediata di Sarajevo. In questo paesaggio di morte e distruzione, l'amore poteva costituire un anelito di speranza.
La donna rappresentata in questo film simboleggia l'universo femminile in generale?
Nell'Odissea ci sono quattro donne che sono differenti l'una dall'altra. Qui tutte e quattro hanno lo stesso volto perchè rappresentano quattro versioni dell'amore.
E' intenzionale l'ambiguità che viene mantenuta durante il film tra sguardo oggettivo e sguardo soggettivo?
Non vedo dove sia l'ambiguità tra questi due poli. Il problema del film è quello del vedere o del non vedere. é vero che qualche volta la macchina da presa cerca di far chiarezza, ma lo stesso tentativo viene fatto anche dal protagonista. In tal caso la macchina da presa si limita a tradurre solo lo stato confusionale in cui egli si trova, la sua non comprensione che deriva dal suo non vedere le cose. Ho l'impressione che in ogni storia, così come nella Storia e nella guerra, si dovrebbe procedere attaverso una domanda di chiarezza. Ci sono così tante informazioni e posizioni differenti, persino contraddittorie, che la realtà finisce per diventare opaca. Chi può dire chi ha veramente ragione nella guerra del Kosovo? Una guerra cominciata perchè era in atto un'epurazione etnica (o per altre ragioni, chissà!) che continua anche adesso? Siamo pieni di immagini del Kosovo che vengono dalla televisione. Non sappiamo se queste sono state manipolate come è successo per quelle della guerra del golfo mostrate dalla CNN. In tale confusione la questione del vedere o non vedere investe il cittadino prima che il politico, il quale si muove secondo un'altra logica, cioè decide senza vedere.
Nel film il protagonista dice di essere un collezionista di sguardi perduti. In che senso?
Il mio protagonista lavora in una cineteca. Per lui gli sguardi perduti sono i film che mancano, le immagini che non ha nella sua collezione. Pensi, per esempio, ai film girati durante la guerra civile in Grecia, che solo recentemente sono stati ritrovati.
Che tipo di collaborazione ha instaurato con Tonino Guerra?
Tonino è un caso unico. Non so come lavori con gli altri, anche se mi è parso di capire che è una specie di camaleonte, capace di adattarsi al regista con cui di volta in volta collabora. L'ho conosciuto all'epoca in cui era lo sceneggiatore di Tarkovskji. Siccome il mio collaboratore abituale si trovava in America per un anno, mi sono rivolto a lui ed è stato molto facile trovarci subito d'accordo. In seguito Tonino è diventato un sacco di altre cose per me; a volte si comporta come un padre, mi chiede se ho freddo, se ho caldo, se ho mangiato, altre volte sembra mio figlio. Sa fare emergere le cose contenute nell'inconscio, proprio come uno psicanalista. Spesso lui sta seduto ed io gli passeggio davanti dicendo qualsiasi cosa mi passi per la mente. Quando sente qualcosa di interessante mi ferma, prende appunti e poi mi dice di continuare. La storia del film che avete visto è cominciata in modo strano: sono andato da lui a Pennabilli, un posto magnifico, dove si mangia bene e i contadini sono stupendi. Tutte le mattine Tonino ed io, come due ombre, passeggiavamo per le vie del posto e parlavamo liberamente, non soltanto della sceneggiatura del film, ma anche di tante altre cose.
E' difficile mettere in piedi la produzione dei suoi film, dal momento che essi sono così poco commerciali?
I miei budget sono ragionevoli e bastano per fare i film in piena libertà. Se superassi una certa cifra avrei dei problemi a mettere in piedi la produzione e soprattutto non sarei più libero. Per questo gli alti budget non mi interessano.
Quanto è costato Lo sguardo di Ulisse?
Cinque milioni di dollari.
Non è poco, in Italia non si fanno film da cinque milioni di dollari.
Ho realizzato il mio primo film con quindicimila dollari e una troupe di cinque persone. é normale che si cominci con poco.
Il suo prossimo film?
Il prossimo film costerà il doppio e sarà girato in Grecia, Russia Uzbekistan, Samarcanda, sul Lago di Val, Israele, Gerusalemme, Altopiano di Golan, New York e in mezzo all'oceano.
Tornando alla battuta su Dio e il viaggio che ho detto prima, si tratta di una citazione?
Sì, di un poeta greco. Ma molti altri poeti sono citati nel film. Ad esempio Keitel a un certo punto dice: "In my end there is my beginning". La frase è presa dai Quattro quartetti di Eliot. Josephson, inoltre, quando è in cineteca legge in tedesco una poesia di Rilke.
L'ultima battuta del protagonista de Lo sguardo di Ulisse, "Tornerò, tornerò", è anch'essa tratta da qualche testo poetico?
No, è mia, ma rinvia all'Odissea, quando Ulisse torna a Itaca sotto le vesti di un altro. Sua moglie non lo riconosce, o forse fa finta di non riconoscerlo, e lui dice: "Tornerò, ti darò dei segni per farmi riconoscere".
Lei ha visto la cineteca di Belgrado?
E' la terza cineteca al mondo. Ciò che fa il protagonista del mio film l'ho fatto io in prima persona. Sono andato, cioè, a cercare i film dei fratelli Manakis, prima a Skopje dove non li ho trovati e poi a Belgrado, dove ho incontrato il vecchio direttore della cineteca, ora in pensione, che mi ha detto di averli in custodia. Uno dei due fratelli Manakis glieli aveva consegnati quando era molto giovane raccomandandogli di tenerli come un tesoro. Così ho avuto le bobine e ho chiesto subito se potevo svilupparle. Mi è stato risposto che nessuno finora ci era riuscito. In Germania, presso un grande laboratorio, ho domandato se era possibile svilupparle con le tecnologie sofisticate di oggi. I tecnici mi hanno detto che era impossibile e che c'erano solo due spiegazioni di questa impossibilità: o la pellicola vergine era bianca o l'emulsione si era consumata all'interno.
La sua espressione, il "collezionista di sguardi perduti" mi pare che possa essere intesa anche come metafora del cinema, del cineasta e del cinèphile.
E' sicuramente la descrizione esatta dei cinetecari alla ricerca delle pellicole scomparse. Ho lavorato alla Cinèmathèque Française e ho visto cosa succedeva quando si recuperava un film e lo si faceva uscire dall'oblio. Era un vera e propria festa.
I put up this page because online-information
on Theo Angelopoulos´ work is very rare, and the original site where
I found it at the "Scuola Nationale di Cinema" (http://www.snc.it/FormIncoAnge.htm)
was deleted.
If one of the copyright holders wants me not
to publish the text, please contact
me and I´ll delete the interview immediately. Chris.